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Mi
capita di comprare libri al chilo.
Così,
il motivo per cui sono entrata in possesso di Una vita come tante è dei più banali: accingendomi a comprare due
libri di Jo Nesbø in economica e sapendo che li avrei finiti nel giro di
massimo tre settimane, ho aggiunto un terzo libro perché “ha oltre mille
pagine, mi dura almeno un mese. E poi in quarta di copertina ci sono delle
recensioni positive”.
Il
libro è pessimo sotto tutti i punti di vista, tranne la cura editoriale e la
traduzione che non tradiscono sciatteria. E poi non è un romanzo: è una lunghissima,
scontata, imponente fan fiction yaoi.
Il
protagonista è chiaramente una Mary
Sue, nella versione passato tragico e presente delirante: è orfano, è stato
sodomizzato da tutti quelli che ha incontrato nella sua vita fino ai sedici
anni, è autolesionista e, a un certo punto, diventa anoressico, fa perdere la
testa al più figo dei comprimari che non
è gay ma lo ama follemente al punto da smettere di fare sesso con lui
quando gli rivela il suo tragico passato perché si rende conto che deve amarlo
castamente dal momento che lui non può provare piacere fisico, ha una serie di
disagi fisici che a volte lo costringono sulla sedia a rotelle, la sua schiena
è un reticolo di cicatrici, ovviamente tenta
il suicidio (a metà libro) e si suicida
(alla fine) ma non prima di aver dato il tempo al fichissimo fidanzato di
morire in un tragico incidente lasciandolo solo e con l’ennesima prova di non
meritare nulla dalla vita. Contemporaneamente è di una intelligenza fuori dal
comune, è il miglior avvocato di sempre e “il più giovane nella storia” al
quale il fittizio studio associato offre la posizione di AD.
Io
sono cresciuta a fanfiction yaoi (in
particolare quelle del fandom Slam Dunk), ma qui parliamo di un libro vero scritto da una persona
adulta. Il pressapochismo impera, invece. Non si prova dolore né empatia né, al
limite, orrore ed è qui la cosa agghiacciante: il protagonista è stato per me
talmente fastidioso con il suo continuo autocommiserarsi ricambiato (dopo i
sedici anni, ovvio, perché i primi sedici anni di dolore sono il prezzo per la
vita successiva) dall’amore dell’universo mondo che non sono nemmeno riuscita a
dedicare un momento riflessivo a quando certe violenze avvengono veramente. E la superficialità con cui
vengono trattate tutte le tematiche è sconcertante: in mille e rotti pagine di
spazio ce ne sarebbe stato, magari “sacrificando” qualche descrizione di bene
materiale dimostrazione della spropositata ricchezza del protagonista e del
fidanzato (no, non si sposano mai, ma del resto smettono anche di fare sesso,
quindi non ce ne è alcun bisogno), e invece questo tizio “si taglia” perché uno
dei suoi aguzzini gli ha spiegato che così si sentirà libero e sollevato. Del resto
smette di mangiare perché così, nel delirio da ipoglicemia, ha le visioni del
compagno morto.
Si
parla di autolesionismo e disturbi ossessivi più o meno come io, al bar, parlo
di scarpe. “Sai mi affetto le braccia con una lametta perché così per mezz’ora
non penso a quello stronzo che quando ero piccolo mi ha preso a cinghiate” – “Eh,
ti capisco, io compro un paio di Jimmy Choo ogni volta che litigo con mio marito”.
Certo,
non lo ho finito in quattro serate, ma gli archivi di fanfiction sono ancora ad
accesso gratuito, quindi in definitiva ho sprecato 20 euro.